LECTIO DIVINA SUL VANGELO domenicale - 28
7 maggio 2017 – 4^ domenica di Pasqua
Ciclo liturgico: anno A
Io sono il buon pastore, dice il Signore,
conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me.
Giovanni 10,1-10 (At 2,14a.36-41 - Sal 22 - 1 Pt 2,20b-25)
O Dio, nostro Padre, che nel tuo Figlio ci hai riaperto la porta della salvezza, infondi in noi la sapienza dello Spirito, perché fra le insidie del mondo sappiamo riconoscere la voce di Cristo, buon pastore, che ci dona l’abbondanza della vita.
Spunti per la riflessione
Pecore e pastori
È risorto, il Maestro.
Lo hanno visto, incontrato, abbracciato. Hanno pianto e riso i discepoli, stupiti, perplessi, scossi.
Ci vuole del tempo per credere, lo sanno, lo sappiamo.
Pietro e Giovanni che corrono al sepolcro, Maria di Magdala che non si stacca dal suo dolore, Tommaso e la sua straziante sofferenza, i discepoli di Emmaus e la loro speranza delusa… Convertirsi al risorto non è un affare di pochi minuti, non è un percorso per uomini deboli, ma per uomini e donne forti e tenaci.
Li raggiunge, il Maestro, là dove sono, nella condizione in cui sono.
Li raggiunge e li aiuta a superare ogni paura, ogni sofferenza.
Li raggiunge perché li ama, perché vuole per loro salvezza piena, perché li aiuta nello scoprire Dio e nello scoprirsi credenti.
Lo fa perché la loro vita è preziosa al suo sguardo.
Lo fa perché sa dove portarli, dove portarci.
Preziosi
A chi sto veramente a cuore?
Per chi sono veramente prezioso? Istintivamente cerchiamo qualcuno che sia disposto ad accoglierci, a valorizzarci, ad amarci al di là e al di dentro delle nostre inevitabili povertà.
Il mondo, attorno a noi, è sconfortante: sono solo un numero, o un consumatore, o un problema sociale. Io non conto se non perché produco o consumo, e allora molti lottano per uscire dall’anonimato, costi quel che costi.
Corriamo dietro al sogno di una ragazza che diventa principessa, come una bella fiaba.
Ma la vita è fatta anche di uomini che scelgono la parte oscura e il loro diventa un sogno di morte, come il capo dei terroristi di Al Qaeda.
In mezzo la Chiesa ci consegna il volto sorridente di Giovanni Paolo, che ha saputo affrontare le contraddizioni del suo tempo come un gigante della fede, dicendo ad ogni uomo: sei prezioso agli occhi di Dio!
Il buon Pastore
Ecco la novità sconcertante. L’inattesa rivelazione: a Dio sto a cuore.
Non agli altri uomini, non alla società, ma a Dio che, solo, mi ama liberamente. Non è come gli altri, il Signore, mercenari che ci amano per averne un tornaconto, quasi sempre.
Ci ama liberamente e amandoci ci rende liberi di amare. Ci ama gratis.
Gesù dice di essere un pastore buono, un pastore capace.
Un pastore bello, di quella bellezza che non è solo estetica, ma assoluta, globale, che porta con sé tutto il bene e tutto il bello dell’umanità.
Gesù è venuto a chiamarci per nome, per condurci al Padre.
Chiede ai suoi discepoli un rapporto personale, intimo, coinvolgente.
Occorre passare attraverso Gesù, attraversare Gesù. Non dice di essere la porta dell’ovile, ma delle pecore. Gesù si presenta come colui che possiamo incontrare, attraversare, come colui che ci dona accesso ad un mondo altro, ad un modo di vedere noi stessi e gli altri completamente diverso.
Gesù chiama le pecore per nome e le pecore riconoscono la sua voce, perché è una voce che parla direttamente al cuore, che salva, che riempie, che consola, che scuote, che dona energia, che perdona, che inquieta, che sconcerta, che porta a verità, alla verità tutta intera.
“Attraversare” Gesù significa passare in una porta stretta, lo sappiamo, in cui ci è chiesto di essere autentici, di essere disarmati, di essere affidati e nudi di fronte a lui.
Gesù ci chiede di configurarci a lui, di dilatare il nostro cuore, di allargare i nostri orizzonti, di fuggire la piccineria, fosse anche santa e devota, per perdere la nostra vita donandola, come egli ha voluto e saputo fare.
Cosa abbiamo da temere? Nessuno ci può strappare dalla mano del Padre.
Guardiani
Il guardiano gli apre.
Il guardiano del gregge sa di non essere lui il pastore, ma di avere ricevuto il compito e l’onore, il peso e la gioia, la croce e la gloria di vegliare sul gregge in attesa dell’arrivo del pastore. No, non sa dove siano i pascoli erbosi, è solo un guardiano, anch’egli chiamato a custodire il proprio cuore nell’attesa della venuta del Maestro. Anch’egli in attesa trepidante di ascoltare la voce del Maestro.
Gioite, cercatori di Dio. Esultate, anime in pena! Rinsaldate le ginocchia vacillanti, gregge di Dio.
Non pecoroni, non beoti, non rassegnati, non storditi dal delirio della contemporaneità, ma amati e chiamati per nome, portati a salvezza e libertà dall’Unico che vi conosce!
Gioisci, Chiesa di Dio, sogno del risorto, passione dell’incarnato, tormento dei discepoli! Tu Chiesa, capace di Dio, chiamata a vegliare con sincero amore il gregge dell’umanità tu, guardiana, non mercenaria, ansiosa di indicare il Cristo a chi cerca la vita in abbondanza!
Ai discepoli il Signore chiede una vita più piena, più vera, non una mezza vita come alcuni stolti credono (Anche tra i discepoli!), una vita donata in abbondanza.
___________________________________
L’Autore
Paolo Curtaz
________________________________________________________________________
Esegesi biblica
Il buon pastore (Gv 10, 1-10)
Questo brano si inserisce in un contesto più ampio che va dalla festa delle Capanne a quella della Dedicazione, che abbraccia praticamente i capitoli 7-10 di Giovanni. Valenti studiosi ritengono che questo brano debba essere compreso alla luce di un contesto più ampio che abbraccia i capitoli precedenti. E precisamente: Gesù che si proclama sorgente d’acqua viva (7,37-38) e luce del mondo (8,12), che rivela la sua identità nel recinto sacro del tempio (c. 8) e guarisce il cieco nato (c. 9). Si tratta quindi della rivelazione della sua persona e della sua opera.
Come viene espressamente detto nel v. 6, ci troviamo nel genere letterario della “similitudine”, che non è l’equivalente di “parabola” (la parabola, infatti, non inizia mai con un’affermazione di rivelazione o di profezia: “In verità, in verità vi dico” v. 1). Tenendo conto dei due casi in cui Giovanni (e solo lui nel NT) usa ancora tale termine (Gv 16,25.29) e del sottofondo veterotestamentario, la “similitudine” significa un parlare figurato e misterioso, che fa capire abbastanza bene il pensiero di fondo attraverso le immagini che cambiano di tanto in tanto.
Nell’espressione: “ladro e brigante” Giovanni forse s’ispirava ad alcuni episodi violenti compiuti dagli zeloti e ben noti quando scriveva. Ma l’evangelista ha soprattutto presente sia il capitolo 24 di Ezechiele, che presenta Jahwè come pastore ed accenna al futuro discendente di Davide (Ez 34,23), che il Salmo 23 che canta Jahwè come “il pastore”. Con questo vario materiale egli costruisce una stupenda teologia cristologica (Gesù è il buon pastore che chiama le sue pecore una per una), ecclesiologica (la certezza di avere il Signore stesso come guida dà sicurezza al passo della comunità, incamminata sulle strade del mondo) ed escatologica. Infatti, mentre per i sinottici il “pastore” è Dio, per Giovanni è Gesù Cristo.
Le due parole fondamentali di questa similitudine sono “recinto” e “porta”.
I recinti delle pecore erano fatti di un muricciolo dotato di una porta stretta, che dava la possibilità ai pastori di contare le pecore, che di notte venivano da loro affidate al custode.
Al mattino seguente il custode apriva loro la porta del recinto e il pastore chiamava le loro pecore. Queste conoscevano solo la voce del loro pastore e seguivano solo lui, non gli estranei. Mentre uscivano al pascolo il pastore le contava perché poteva accadere che durante la notte alcuni banditi scavalcando il recinto potevano aver fatto razzia delle pecore.
Nella Bibbia, però, la parola “recinto” non viene mai usata per indicare un luogo destinato agli animali, ma lo spazio dove, durante l’Esodo, si trovava la “Tenda del Convegno”. Più tardi il termine indicherà i “cortili” del tempio. Gesù quindi si sta riferendo alle istituzioni di Israele, che avevano la loro massima espressione nella Legge
Per i farisei la legge era il luogo dove si poteva entrare ma non si poteva uscire: era un luogo chiuso. Le pecore (l’intero popolo d’Israele), dovevano attraversare questo recinto (la legge), se volevano far parte dell’ovile (cioè se volevano appartenere al popolo eletto), sottostando alle loro interpretazioni della legge, che generalmente erano molto gravose.
Questo recinto, invece, per Gesù ha una “porta”, dalla quale egli chiama le sue pecore una per una facendole uscire. Altre pecore che si trovano in quel recinto non conoscono la sua voce o non la vogliono ascoltare. Le sue pecore invece lo seguono.
Gesù rivela inoltre di essere la “porta” non del “recinto”, ma del “tempio di Dio”. Nessuno può entrare nella casa di Dio senza passare per Gesù. Lui è l’unico che può condurre le pecore alla salvezza. Chi sta in lui sperimenta la libertà: “entrerà e uscirà e troverà pascolo” (v. 9). Solo lui è in grado di donare la vita eterna. Nessun altro invece ha il potere di donare la vita.